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Corea da Oscar

testo di Paolo Bertolinfoto di Stefano De Luigi

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La Corea non è solo Samsung, LG, Daewoo e Hyundai. Nella comunità cinematografica internazionale, da un decennio a questa parte, è un fatto che la Corea del Sud sia diventata una delle pedine chiave. Un fenomeno sentito anche in Italia: da un lato, con l'ascesa nell'empireo del cinema d'autore di Kim Ki-duk, regista di Primavera, Esta-te, Autunno, Inverno… e ancora Primavera e Leone d'Argento a Venezia 2004 per Ferro 3. Dall'altro, con la rivelazione di un manipolo di cult movie spesso caratterizzati da una violenza iperrealista, quali il Grand Prix di Cannes 2004 Old Boy di Park Chan-wook o Bittersweet Life di Kim Ji-woon.
La nuova ondata coreana (la cosiddetta hanryu, pronunciato "hallyu") s'è affermata dalla seconda metà degli anni Novanta, quando un'inedita generazione di cineasti ha conquistato la ribalta dei festival internazionali, ottenendo anche il risultato di riavvicinare il pubblico locale alle produzioni nazionali. «La nostra generazione ha conosciuto la disperazione degli anni del regime militare e s'è poi riempita di speranza quando siamo tornati alla democrazia - argomenta Park Chan-wook, recentemente laureato di nuovo a Cannes con il premio della giuria per il suo Thirst -. Siamo quindi carichi d'emozioni e molto interessati a raccontare la nostra società con una prospettiva che va al di là dell'investigazione dell'interiorità individuale».
Le pellicole che hanno segnato il passato decennio al botteghino coreano, permettendo al cinema nazionale di sopravanzare i prodotti hollywoodiani, per esempio Shiri e Taegukgi di Kang Je-gyu o JSA-Joint Security Area dello stesso Park, si sono infatti distinte per l'interesse verso il grande trauma storico-politico della divisione dai fratelli del-la Corea del Nord, tetro e doloroso relitto della Guerra Fredda che i nuovi film hanno raccontato accantonando la retorica anticomunista dei tempi della dittatura. «Nel passa-to, il cinema coreano è stato segnato dalla censura di regime - rammenta Ahn Sung-ki, attore veterano che a soli otto anni, nel 1960, recitò in The Housemaid di Kim Ki-young - la democratizzazione ci ha permesso di raccontare quel che prima non potevamo. L'ingresso tra i finanziatori del cinema di grandi gruppi industriali come Samsung, Sk o Daewoo ha poi permesso d'incrementare budget e ambizioni».
Il nuovo cinema coreano si è distinto anche per un'ibridazione dei generi, talvolta in maniera spericolata: per esempio con la commedia My Sassy Girl di Kwak Jae-young, recente oggetto di un remake americano, o con Memories of Murder di Bong Joon-ho che, sullo sfondo di un thriller, dipinge un sottile affresco dell'epoca dell'autoritarismo. «Durante gli anni della dittatura del generale Park Chung-hee - ricorda Bong Joon-ho, che all'ultimo Festival di Cannes ha presentato l'acclamatissimo Mother - un rigido si-stema di contingentamento permetteva l'uscita di soli venti film stranieri l'anno. Alla fine degli anni Ottanta, con l'arrivo della democrazia e l'esplosione del mercato video, la cinefilia è fiorita con vigore».
Nel luglio 2006, proprio mentre Bong siglava con il monster movie The Host il più grande successo nella storia del cinema coreano (oltre tredici milioni di spettatori), si è registrato un fatto nuovo: grazie alle pressioni del Governo statunitense le quote di programmazione, che sino ad allora garantivano ai film coreani un'esposizione nei cinema nazionali per 146 giorni l'anno, sono state dimezzate a 73 giorni. Così, nell'ultimo biennio, il cinema nazionale ha conosciuto una brusca battuta d'arresto. «Gli sforzi per atti-rare gli spettatori in sala si sono materializzati in una produzione di massa di "popcorn movie" prevedibili - commenta Park Chan-wook - dimenticando che i film trionfatori al botteghino si distinguevano per originalità e freschezza».
I segnali di ripresa, tuttavia, non mancano. Negli ultimi mesi alcune pellicole indipendenti, come il documentario Old Partner e il premiatissimo Breathless di Yang Ik-june, hanno registrato grandi successi. E l 'interesse internazionale per il cinema coreano è stato confermato dal contingente record dell'ultimo Festival di Cannes: ben nove pelli-cole, tra corti e lungometraggi.


Dalla Corea al Lido
Dopo la partecipazione record all'ultimo Festival di Cannes con nove titoli tra corto e lungometraggi, il cinema coreano è presente a Venezia con due pellicole. Alla Settimana della Critica concorre l'opera prima di Jung Sung-il «Café Noir», ambizioso doppio adattamento nella Seul contemporanea di «Le notti bianche» di Dostoevskij e dei «Dolori del giovane Werther» di Goethe. Nella sezione Orizzonti, in omaggio alla giurata Gina Kim, regista attiva negli Stati Uniti molto amata da Martin Scorsese, è invece stato inserito il documentario «Faces of Seoul», che disegna un'idiosincratica topografia della capitale coreana sul filo della memoria individuale e collettiva.
Paolo Bertolin è membro del comitato di selezione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
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